In bocca ai lupi (di Nicola Di Cesare)

da | 26/09/2013 | Articoli | 0 commenti

In tempi neanche  troppo lontani il mercato del lavoro si poteva considerare come un mondo abbastanza semplice e ordinato. Esistevano coloro che avevano un lavoro stabile  e coloro che ne erano privi definiti “temporaneamente disoccupati”; al termine della vita lavorativa quasi certamente si conseguiva il diritto alla pensione.  Questo sistema lineare, nel quale tutti si barcamenavano senza eccessi e senza particolari difficoltà, dai contorni vagamente “comunisti”, per molti non era affatto accettabile. La politica allora decise che nessuno si sarebbe dovuto accontentare solo di vivere ma che ci si doveva proiettare tutti verso il mondo radioso della produttività, guidati dalla stella polare dell’aumento dei suoi saggi di crescita. Si cominciò negli anni ’80 del ‘900 con la standardizzazione dei sindacati alla linea della deregulation thatcheriana, attraverso il varo di una politica dei redditi volta al contenimento della crescita salariale (bisognava sconfiggere quel mostro dell’inflazione!); si decise dunque che la scala mobile fosse l’origine di tutti i mali; fu cancellata ma i disoccupati invece di diminuire aumentarono. Dal momento che nessuno sentì il rumore di Phillips rigirarsi nella tomba i professori della mano invisibile del mercato promisero a tutti che, in cambio di flessibilità e mobilità del lavoro, ci sarebbero stati molti meno disoccupati. Flessibilità e mobilità furono concesse con gioia dalle gaudenti organizzazioni sindacali (le stesse di oggi) ma i disoccupati aumentarono ancora e quindi vennero nascosti ridefinendo i criteri statistici per la loro individuazione e catalogazione. Poi arrivarono i signori del FMI della BCE e dell’UE a dire che per far scendere la disoccupazione si sarebbe dovuto rinunciare a tutte quelle assurde tutele e a quegli opprimenti diritti dei lavoratori che impedivano ai datori di lavoro di assumere più personale. I diritti e le tutele vennero cancellati attraverso le leggi Treu e Biagi e i disoccupati aumentarono ancora. Si alzarono allora gli strali contro il costo del lavoro determinato da quell’assurda mania di rinnovare di frequente i contratti di categoria. I rinnovi contrattuali si rinnovarono solo per diminuire i salari reali ma i disoccupati continuarono imperterriti ad aumentare. Venne poi la volta del sommo agnello sacrificale, il cuore della legge 300; l’articolo 18 andava cancellato, tra lacrime coccodrillesche e pantomime televisive d’ improbabili ministri;  si sarebbero finalmente aperte le porte del paradiso del lavoro, così che più nessuno sarebbe rimasto senza di che sfamarsi. Il risultato fu che il numero dei disoccupati crebbe fino a diventare un flagello biblico. Venne infine l’aumento della produttività a favore della competitività spinta; se non si possono più deprimere i salari orari allora che si allunghi l’orario di lavoro! Niente. L’esercito di disoccupati si ingrossò a vista d’occhio. Non potendo più accrescere il numero  dei disoccupati (si sarebbe dovuto assumere qualcuno per poi licenziarlo !),  in piena temperie  anarcoliberista, il sistema generò quindi uno tra i peggiori dei suoi mostri sociali:  il lavoratore indigente cioè quell’individuo il cui salario è insufficiente per vivere; questa singolare figura di schiavo moderno ha tuttavia un futuro assicurato, quello del pensionato percettore di una pensione inutile che non basta nemmeno a garantirgli il cibo per una settimana; condizione che potrebbe perfino essere motivo di orgoglio di fronte alla categoria dei pensionati senza pensione, detti anche “esodati”. Al termine di questa febbre riformatrice si fecero i conti e si scoprì che, a metterli insieme, tutte questi ex cittadini ormai trattati alla stregua di “sfigati, parassiti, nullafacenti”, di cui il sistema non sa che farsene, accompagnati dalla loro prole e consorteria, assommavano quasi a 10 milioni di teste; insomma 1/6 della popolazione. Ora la stampa dei “produttori non contribuenti”  (cioè quel 10% di Italiani che incassano sempre e non pagano mai le tasse), unitamente ai proprietari esteri di aziende ex Italiane che pagano le tasse all’estero, fa i conti “preoccupata” con la discesa perentoria del mercato interno per mancanza di reddito, qualcuno si accorge che “quelle zavorre” non solo non hanno un salario di cittadinanza come in un qualsiasi paese del mondo (anche negli USA !) ma che campano loro malgrado a detrimento della ricchezza di amici e parenti caritatevoli così che il reddito disponibile della classe media nel suo complesso si è ridotto davvero a poca roba. Tutto questo mentre i contribuenti spendono uno sproposito per un sistema pensionistico iniquo e polarizzato tra pensioni da fame e pensioni d’oro, ancora una volta mantenuto a carico di chi lavora e a favore di chi davvero parassita. Un sistema che fa pagare ai lavoratori dipendenti (ai fortunati che lavorano) anche il sostegno alle imprese realizzato attraverso la cosiddetta “cassa integrazione” (sempre in deroga); un feticcio di quello che fu un reale sostegno al reddito che la stampa di regime fa passare ancora come tale quando invece si tratta di sovvenzione mascherata alle aziende con un piede nella fossa.

Nessuno lo dice, perché a dire che il re è nudo si rischia la testa, ma ormai è chiaro a tutti che se la base industriale di un paese è in grado di assorbire un dato numero di unità operative, non saranno certo la sottrazione dei diritti, l’abbassamento dei salari reali, la diminuzione del cuneo fiscale, l’aumento degli orari di lavoro a creare nuova occupazione. Per creare lavoro è necessario allargare la base industriale e produttiva di un sistema economico aperto, sia attraverso un aumento degli investimenti produttivi che attraverso l’allargamento dei mercati (principalmente interni), ridando nel contempo fiato ai redditi attraverso la redistribuzione degli stessi. Panico ! In un paese come l’Italia nel quale da Roma in giù, da 40 anni,  non si è investito un Euro se non in attività discutibili, nel quale il tasso di obsolescenza delle infrastrutture cresce a ritmi vertiginosi, dove il deficit  burocratico amministrativo è spaventoso, il gap culturale ormai incolmabile e il buco delle finanze pubbliche siderale, pensare di trovare capitali da investire è quanto meno velleitario.

E allora che si fa ? Come si farà a trovare altri 150 (centocinquanta !) miliardi di carico fiscale strutturale (pareggio di bilancio, fiscal compact, cuneo fiscale, investimenti) per ognuno dei prossimi venti anni a venire in assenza di sovranità monetaria, di sovranità fiscale, di politica industriale e ormai di sovranità legislativa, dal momento che ormai solo il 10% delle norme vigenti proviene dal parlamento dello stato ?

Non spaventatevi perché in realtà tutto tornerà a posto quando il disegno complessivo andrà a compimento. Vendendo tutto, ma proprio tutto, i gioielli industriali di stato che fanno utili, fabbricati, terreni, parchi, spiagge, musei, acqua, concessioni per la ricerca petrolifera e gasifera e la produzione energetica; privatizzando sanità, istruzione, pensioni, strade, servizi comunali e  amministrativi e ipotecando anche il culo delle prossime quattro generazioni sicuramente usciremo da questa crisi. Del resto è necessario fare ogni mossa possibile pur di non far pagare le tasse a quel 10% di Italiani che possiedono il 70% delle ricchezze del paese ( per gran parte già nascoste all’estero) e lasciar tranquille le mafie che hanno in mano il gioco d’azzardo e sereni i trafficanti di transazioni finanziarie “over the counter”;  tutti onesti cittadini che tengono ferme e improduttive le risorse che sarebbero necessarie a far rinascere l’Italia senza svendere il paese a prezzi di saldo. A meno che “loro” non abbiano già deciso di regalare il nostro stivale, isole comprese, proprio a quelli lì; quelli che da quarant’anni li pagano le campagne elettorali e gli appartamenti a loro insaputa……………….

Auguri a tutti e buoni anni a venire.

 

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